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Io Capitano - Recensione

Torna Matteo Garrone a quattro anni di distanza da Pinocchio, con il film che ti aspetti. Una fiaba reale e crudele che mostra il viaggio compiuto da due ragazzini senegalesi lungo la rotta dei migranti fino all’Italia. C’è il dramma umano, ma c’è anche il desiderio, il sogno, e la forza dei due protagonisti. Leone d’Argento Premio per la miglior regia per Garrone e Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore emergente a Seydou Sarr alla Mostra del Cienema 2023

Seydou e Moussa sono cugini, hanno circa sedici anni e vivono a Dakar. Lavorano segretamente, perché i genitori vogliono che vadano a scuola; il loro obiettivo, infatti, è guadagnare abbastanza soldi per partire, direzione l’Europa, e realizzare il loro sogno di diventare rapper. L’unica strada percorribile per loro è l’Africa, il deserto, la Libia e infine il mar Mediterraneo. La mamma di Seydou non vuole che il figlio parta perché è conscia che il viaggio li potrebbe portare alla morte, ma i due giovani non possono rinunciare al loro sogno. E così una sera si mettono su un autobus e si avventurano. Arrivano nel deserto e da qui inizia un altro risvolto del loro viaggio, fatto di percosse, violenze, torture, inganni. I due cugini, per giunta, si dividono per ritrovarsi poi a Tripoli dopo essere passati per i centri di detenzione libici. C’è un peschereccio che li aspetta prima di giungere in Sicilia e Seydou è nominato, suo malgrado, capitano dell’imbarcazione.
A pensarci bene solo Matteo Garrone poteva filmare un film che raccontasse l’Odissea moderna di due giovani migranti per giungere in Europa. Questo perché il suo cinema si è sempre segnalato come crudo e forte, tagliente e senza paura nel mostrare e descrivere il terribile. Il dramma sociale e criminale di Gomorra, l’emarginazione di Dogman, la malattia psichica di Primo Amore, gli inganni e le seduzioni de L’imbalsamatore, in tutti questi film il regista romano ha sviluppato la sua poetica pervasa da una forte volontà di attestare il vero, tanto da porre il suo cinema tra il documentario e la finzione. La macchina da presa, tenuta a mano, infatti, segue attentamente l’azione dei personaggi, gli sta incollato, e non si nasconde di fronte alla violenza più viva. Il sangue, le tumefazioni, le violenze, i corpi martoriati sono una componente importante del cinema di Garrone, filmati sempre senza giudicare, senza premere sulla tensione indotta, sulla spettacolarizzazione, ma avendo come focus principale la realtà. A questo dato di attenzione per ciò che è vero, si unisce un altro aspetto del suo cinema che può apparire come il suo esatto opposto, ossia l’elemento fiabesco. Garrone sin dal suo primo film Terra di mezzo racconta delle storie apparentemente fantastiche perché sembrano non poter realmente esistere nella contemporaneità, eppure sono vere. Guardando alla sua intera produzione, in cui includiamo anche le novelle de Il racconto dei racconti Pinocchio, lo spettatore osserva e si fa portare all’interno di questi mondi reali venati da un’atmosfera fantasiosa e favolistica in cui giustizia, diritti, rispetto, pensieri di convivenza non trovano spazio (per approfondire questo aspetto di sogno e realtà vi consigliamo di ascoltare la puntata del nostro podcast La Luce del Cinema dedicata al cinema del regista romano). Le fiabe nere di Garrone, però, sono reali e sono da percepire in prima persona. Io capitano è una fiaba intrisa di realtà in cui l’elemento che convince e rende verosimile la storia è che i due cugini sono due adolescenti che inseguono un sogno. Vivono una dignitosa povertà, non hanno molto, ma hanno la famiglia, la scuola e un lavoro. Però vogliono realizzare il loro desiderio, il loro sogno e per questo partono, esattamente come tutti i giovani che si trasferiscano da un posto all’altro dell’emisfero settentrionale del mondo, per coltivare le loro passioni. Infatti, fino al viaggio in autobus dal Senegal, Io Capitano è anche pervaso da un’atmosfera positiva, poi quando sopraggiunge il deserto, l’altro cimitero di migranti, come visto nel film, tanto quanto il Mediterraneo, inizia l’inferno. E qui Garrone propone gli stenti, la lunga e infinita camminata in questo paesaggio di sabbia sempre uguale, e poi il passaggio in auto che si presenta più pericoloso della camminata. La macchina da presa del regista è sempre incollata su Seydou e ne registra la stanchezza, il timore, la paura e il suo sudore si sente sulla pelle dello spettatore, a tal punto che quando il ragazzo arriva in Libia il suo terrore è percepito come proprio dallo spettatore. Anche quando Seydou è torturato, picchiato, reso un oggetto sui cui infierire, Garrone è sempre con lui.
Per fortuna in questa drammatica e disgraziata esperienza, il giovane conosce un uomo, un migrante, grazie a cui riesce a lavorare ed arrivare a Tripoli. Nella capitale libica, nella vita sospesa dell’attesa di partire, Seydou trova un altro momento di pausa dalle atrocità, quando si ricongiunge con Moussa il quale è parecchio malconcio a causa delle violenze subite nelle prigioni libiche. Dalla felicità, dal lavoro, dalla possibilità di accumulare il denaro necessario a salpare per il Mediterraneo, il film torna all’ansia, alla disperazione, al panico nel viaggio in mare, e l’occhio del regista, come il nostro di spettatore, neanche a dirlo, è sempre su Seydou. Lo spettatore è immerso in quell’atmosfera, è vivo in tutti questi momenti di vita narrati nel film, sia i più terrificanti che quelli del sogno, legati ai sensi di colpa del protagonista per aver abbandonato la madre, o dei rapporti di amicizia che il giovane instaura con gli altri migranti. Tale alternanza narrativa tra le scene più crude e quelle più di fratellanza conferiscono alla pellicola un respiro visivo e narrativo più ampio. Per rendere il tutto maggiormente efficace il linguaggio di Garrone è asciutto, essenziale, minimale (la lingua è quella parlata realmente dai ragazzi, il wolofi, le scene sono ricostituire dettagliatamente, i vestiti sono quelli di fortuna dei migranti), ma soprattuto gestisce in maniera calibratissima le emozioni di Seydou Sarr, alla sua prima prova d’attore. Il ragazzo appare così bravissimo nel rendere il processo di velocissima crescita e di perdita di innocenza del suo personaggio.

Io Capitano, concludendo, è una fiaba nera e cruda, piena di momenti di terrore, che è nel presente, è oggi, è un racconto quotidiano; trascina chi guarda dentro quell’attimo di vita che non appare vita. Garrone così conferma il suo essere un autore di cinema in grado di saperlo sfruttare a pieno per raccontare ciò che vuole mostrare, ossia narrare una storia di felicità che si trasforma in tragedia. Ribadisce, così, il concetto per cui il cinema può essere anche uno strumento di civiltà e di registrazione del contemporaneo. Usare la finzione, per mostrare la verità.

Crediti fotografici.
Foto 1, Io Capitano (Me Captain), Seydou Sarr and Khartoum Sy




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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