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Let the Summer Never Come Again - Recensione

La nostra attenzione su Aleksandre Koberidze, e sul cinema georgiano contemporaneo, si sviluppa e approda al primo lungometraggio del giovane regista. È il 2017 e con un cellulare in mano, Koberidze racconta la storia di un ragazzo e del suo amore per un soldato all’interno di una Tbilisi cupa e povera. Sperimentazione, azzardo, non conformismo o solo una volontà di narrazione che prende corpo in stilemi ben precisi?

Un giovane georgiano lascia il suo paese di campagna per andare in città a fare un’audizione di danza. Prova in tutti i modi a campare con il lavoro di ballerino, ma non ci riesce e la povertà che attanaglia la città, Tbilisi, lo pervade. Per questo decide, aiutato da un uomo, di prostituirsi e successivamente conduce un’altra pratica pericolosa, i combattimenti clandestini. La vita del giovane, quindi, sembra in parte migliorare, almeno economicamente, fino a quando si innamora di un suo cliente, un soldato costretto a partire per il fronte. La sua vita si evolve in una direzione di amore e condivisione che porta i due protagonisti a spostarsi dalla città nuovamente verso la compagna.
Aleksandre Koberidze è un nome noto nelle nostre pagine. Lo abbiamo già incontrato nel nostro approfondimento sul cinema georgiano contemporaneo, analizzando due cortometraggi, ColophonLinger on Some Pale Blue Dot, realizzati a inizio carriera. Al termine della loro analisi, ci siamo chiesti come la struttura visiva e gli interrogativi proposti dalla narrazione potevano evolversi nel lungometraggio. Let the Summer Never Come Again, opera prima di Koberidze realizzato nel 2017, è la risposta. In quasi tre ore e mezza, la pellicola si incardina, proprio come i due corti, in una storia molto semplice espressa secondo l’asse: giovane protagonista-sogni-amore-speranze. Non c’è molto di più, se non il ritratto di una Tbilisi povera che arranca dopo la guerra e una poesia visiva nell’inquadrare i dettagli, gli scorci della città, i movimenti dei protagonisti e le loro interazioni. Poesia che si focalizza non sul lirismo, ma sulla scelta della narrazione ossia sul modo scelto dal regista di raccontare ed ecco che così, Let the Summer Never Come Again si accorda sugli stilemi dei due cortometraggi precedenti. Il film, infatti, è una storia d’amore, come in Colophon, elemento suggerito anche nella didascalia iniziale, “L’amore non ha una fine, una storia ce l’ha sempre. Ora vedrete una storia d’amore” la quale, però, al contrario di quanto visto nel corto, si concentra sui fatti, sulle azioni, sulle scelte e non sulle domande esistenziali, come se il regista volesse dare delle risposte, piuttosto che interrogarsi. Sono risposte, però, appenate, non definite, non precise, come suggerisce l’impianto visivo del film. Questo, infatti, è girato interamente con un cellulare, vecchio di sei anni per l’epoca, distruggendo la definizione naturalistica di Colophon per lasciare lo spazio al non visibile, alla vaghezza, all’imprecisato, al non del tutto comprensibile. Le immagini, infatti, appaiono pennellate, strisce di colore in pixel che invadono l’inquadratura la quale si mette a fuoco, ma neanche troppo, quando si concentra sul giovane protagonista, Mate Kevlishvili e sul soldato, Giorgi Bochorishvili. La loro vita non ha una direzione precisa, non è chiara, sono due fantasmi in una città spesso buia, che vive giorno dopo giorno e quindi il loro sguardo non può essere chiaro. In quest’ottica si possono comprendere alcune scelte linguistiche di Koberidze apparentemente disorientanti come gli zoom, la non connessione tra immagine e parola (spesso è inquadrato un particolare, mentre la voce fuori campo della narratrice onnisciente descrive ciò che si vedrà; scelta linguistica questa ripresa dai due corti, solo che questa volta la voce femminile parla in georgiano), e soprattutto il sonoro. I dialoghi sono pressoché inesistenti, come in Colophon, per lasciare spazio ai rumori della città che pulsano prepotentemente negli orecchi di chi guarda, e la musica non si accorda del tutto con il narrato. Il regista, infatti, sceglie di utilizzare brani struggenti che fanno eco al cinema dell’epoca d’oro di Hollywood, altro richiamo al corto, musica da spy story, per invece tramutarsi quando inquadra il cielo o l’elemento naturale in sviolinate come in un film d’amore, fino al neo melodico georgiano. Infine l’ultimo elemento che disorienta sono gli intermezzi. Il film è scandito in tre capitoli intervallati dalle immagini di una macchina da presa, dal montaggio della pellicola, della luce che esce dal proiettore, accompagnate da una voce maschile (il regista stesso?) che racconta momenti della propria vita da adolescente, di vita famigliare, compromessi dallo scoppio della guerra.

Insomma, che cosa vuole dimostrare Koberidze con un film che ha questo impianto stilistico e narrativo? Perché mettere così in crisi lo spettatore a cui è chiesta una forte dose di concentrazione, considerando anche la lunghezza del montato? E infine perché l’estate non deve più tornare, come dice il titolo? Sembra riduttivo nascondere le risposte a questi interrogativi dietro la volontà di sperimentazione e di osare del regista alla sua opera prima, ma non è nemmeno da escludere. Sicuramente un budget non sfavillante avrà costretto Koberidze a prendere delle decisioni importanti, ma non può essere solo questo. Let the Summer Never Come Again va inquadrato sulla linea di analisi, dritta e concreta, iniziata con i due corti. È evincibile da parte del giovane regista una maturità ancora da sbocciare, che si fonda, però, su alcune caratteristiche linguistiche chiare. In questo senso l’estate che non deve tornare è sinonimo di un pessimismo radicato, di una disillusione profonda del regista sul futuro di quella Tbilisi e dei georgiani. A ciò si aggiunge, in contrapposizione, una volontà di sdrammatizzare (vedi le musiche o la scena dei clown teppisti) e di lasciare che quanto descritto rimanga in quel 2017 come a oggi, solo un indefinito ricordo. 




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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